La ricerca scientifica in definitiva ha correlato due imprescindibili elementi: la salute umana e lo stato del microbiota intestinale.
Il microbiota umano: è definito come l’insieme di tutti i batteri, virus, funghi e protozoi che albergano nel nostro corpo, dall’esterno (pelle e mucose) all’interno (apparato digerente). Nell’intestino risiede gran parte del nostro microbiota, ma perché la nostra salute è così fortemente unita ad esso in un unico destino?
Perché questi microrganismi, nostri simbionti, producono migliaia e migliaia di molecole e sostanze che causano degli effetti nel nostro organismo, sia positivi che negativi. In assenza del nostro microbiota moriremmo in poco tempo, perché la nostra vita dipende dalle sostanze che esso produce. Allo stesso tempo, un microbiota alterato, squilibrato, tecnicamente detto in disbiosi, ci apporta gradualmente dei danni, che possono portare alla comparsa di svariate patologie.
L’assetto del nostro microbiota intestinale prende forma già all’interno dell’utero materno e continua a formarsi al momento del parto e durante l’allattamento. Nei primi 1000 giorni di vita il microbiota continua a modificarsi e a perfezionarsi attraverso le interazioni con l’ambiente esterno e grazie all’alimentazione.
Questo però non significa che durante il corso della vita non possiamo peggiorare o migliorare lo stato del microbiota. Ad esempio un uso spropositato di antibiotici, che agiscono come selettori di ceppi resistenti alla loro azione battericida, ne modifica la composizione in negativo.
L’alimentazione influisce enormemente, tanto che recenti studi hanno messo in correlazione tre tipologie di diete e i loro relativi effetti sul microbiota:
Dieta occidentale da fast food e cibo-spazzatura
L’uomo moderno occidentale avendo poco tempo da dedicare alla cucina, trascorre spesso i momenti del pasto fuori casa, al ristorante o nei fast-food. Ed anche quando consuma il pasto in casa, questo è costituito spesso da prodotti conservati, processati, salati, pasti precotti da riscaldare al microonde. Molto presenti sulle tavole occidentali, sono anche formaggi, prodotti derivati dai cereali raffinati e conservati (pasta di semola, riso bianco e pan bauletto), bibite gassate.
La dieta occidentale è quindi, ricca in proteine animali, zuccheri semplici, acidi grassi saturi e trans, sale e glutammato sodico e bassissimo contenuto di fibre e di alcune vitamine (per la carenza di frutta, verdure e cereali integrali).
Tale dieta, risulta squilibrata e poco salutare, e correla con una notevole riduzione di batteri intestinali produttori di metaboliti e vitamine utili alla salute umana. Di contro favorisce un aumento di batteri patogeni e di nitrosammine procancerogene. Per tale ragione, la dieta occidentale è associata ad un alto rischio di sviluppare patologie cardiovascolari, diabete mellito di tipo 2, obesità, dislipidemie e cancro.
Dieta gluten-free
Il consumo di cereali processati e privati del glutine, come la pasta di farina di mais o il pane in cassetta privo di glutine, sembra essere una moda diffusa anche tra la popolazione non celiaca. La considerazione del glutine come molecola dannosa è infatti oggi molto diffusa. Il glutine in eccesso, in alcuni casi, può in effetti portare a fenomeni infiammatori che danneggiano il microbiota e la parete intestinale. Tuttavia, è doveroso precisare che la dieta gluten-free analizzata in questi studi, è prevalentemente composta da prodotti processati, a discapito di quelli naturalmente privi di glutine, come ad esempio quinoa, grano saraceno ed amaranto.
Alla dieta gluten-free è stata associata un’ingente riduzione della variabilità delle specie batteriche intestinali specialmente dei ceppi Ruminococcus e Roseburia, con aumento di specie patogene quali Victivallaceae e Clostridiaceae. Una dieta gluten-free sembra quindi essere associata all’insorgenza di patologie simili a quelle da dieta da fast-food.
Dieta mediterranea
Alla Dieta Mediterranea un’infinità di studi associano: un abbassamento dei processi infiammatori dei tessuti e un aumento di bifidobatteri e lattobacilli a livello intestinale (leader del benessere). Inoltre, con una dieta di tipo mediterraneo, si riscontra una drastica riduzione di microrganismi patogeni.
Tale dieta, predilige il consumo di proteine vegetali a quelle animali, apporta un’adeguate quantità di fibra solubile e insolubile grazie a frutta fresca, ortaggi e verdure di stagione. Questi alimenti sono anche ricchi in vitamine, sali minerali e carboidrati complessi a basso indice e carico glicemico. La dieta mediterranea fornisce, inoltre, un giusto equilibrio tra acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi Omega-6 e Omega-3.
Microbiota intestinale e acidi grassi
Il consumo eccessivo di acidi grassi insaturi, è stato correlato con l’aumento della produzione di acido arachidonico, prostaglandine proinfiammatorie come la PGE2, citochine proinfiammatorie come l’IL-7 e l’aumentata attività dei macrofagi. Inoltre, questo altera la composizione della struttura lipidica delle membrane delle cellule del sistema immunitario, interferendo con il loro corretto funzionamento.
Inoltre, una dieta ad alto contenuto di acidi grassi saturi, innalza i livelli di infiammazione sistemica dovuta ad un aumento della concentrazione di LPS in circolo. Le LPS sono lipopolisaccaridi, che compongono parte della parete batterica e che dall’intestino possono diffondersi in tutto l’organismo sfruttando il torrente sanguigno. In questo modo possono provocare uno stato infiammatorio generalizzato nei tessuti periferici.
Microbiota intestinale e zuccheri semplici
Alcuni studi correlano il consumo di una dieta ad alto contenuto di zuccheri semplici con un aumento della trasformazione degli SCFA (acidi grassi a corta catena benefici per le cellule intestinali) nel fegato, in glicogeno e lipidi di riserva. Altri studi, invece, mostrano una riduzione della produzione degli SCFA da parte del microbiota, a favore invece dell’aumentata produzione di H2S, acido solfidrico, dannoso per la nostra salute.
Molteplici studi correlano in maniera esponenziale, il consumo di alimenti ricchi in zuccheri semplici come bibite gassate e dolciumi, con l’innalzamento dello stato infiammatorio, testimoniato dall’aumento della concentrazione in circolo di citochine proinfiammatorie.
In diete prive di alimenti ricchi di zuccheri semplici, preponderanti in frutta, verdure e cereali integrali, si registra esattamente il fenomeno opposto. I marcatori dell’infiammazione sistemica dell’organismo calano drasticamente.
Le piccole frazioni batteriche che fanno la differenza
In diete a più basso contenuto in grassi saturi, ricche in fibre e integrate con prebiotici, si riscontra maggiore presenza di alcuni generi batterici. Tra questi generi, comunque naturalmente presenti in piccolissime frazioni, vi sono Akkermansia, Bifidobacterium, Sutterella and Turicibacter. Questi, nonostante rappresentino una piccolissima percentuale del microbiota intestinale, sembra siano importantissimi per il miglioramento del quadro glicemico, insulinico e metabolico.
L’osservazione che ad oggi allerta maggiormente la comunità scientifica, è l’assenza di queste piccole nicchie batteriche in una buona fetta della popolazione umana occidentalizzata. Non a caso, queste “piccole” assenze microbiotiche sono associate a diete scompensate in nutrienti. A diete quindi ricche in zuccheri semplici, acidi grassi saturi e trans e povere di fibre.
Nonostante la ricerca scientifica compia costantemente passi avanti nel chiarire la complessa interazione tra il microbiota e la salute umana, molto ancora resta da scoprire. Comunque, appare chiaro che maggiormente impoveriamo la biodiversità del nostro microbiota, più aumentiamo i rischi di sviluppare ogni tipo di patologia. Da quelle dell’apparato digerente, a quelle sistemiche, neurodegenerative, infiammatorie, autoimmuni, cardiocircolatorie, metaboliche, e molte altre ancora.
Articolo a cura di dott. Luigi Fiore
Bibliografia:
Western diets, gut dysbiosis, and metabolic diseases: Are they linked?
Fast food fever: reviewing the impacts of the Western diet on immunity
Influence of diet on the gut microbiome and implications for human health